lunedì 13 febbraio 2012

africani in medioriente

.Sepolti nel deserto del Sinai
Da Nigrizia di febbraio 2012: storia di migranti mercificati


Silvia Boarini da Tel Aviv
Molti sono eritrei, ma arrivano anche da altri paesi dell’Africa subsahariana. Cercano di raggiungere Israele, lasciandosi alle spalle oppressione e miseria. Spesso diventano prede di trafficanti di esseri umani e di organi. E la comunità internazionale?
Mary è stupita di sentire ancora il respiro del figlio tra le sue braccia. Era sicura fosse morto, ucciso da una delle pallottole sparate dalle forze egiziane contro i migranti che tentano di raggiungere Israele. Ricorda che gridava: «Abbiamo bisogno di aiuto», e non credeva alle parole del soldato israeliano di fronte a lei che diceva: «Ora sei al sicuro». Era davvero al di là del filo spinato. L’incubo del Sinai finalmente alle sue spalle.
Nei 15 mesi che aveva trascorso nelle mani di Muhammad, uno dei contrabbandieri beduini che controllano il traffico di migranti nel Sinai, aveva subito pestaggi, era stata stuprata e aveva visto suo figlio, di 2 anni, picchiato e tenuto semisepolto nella sabbia. «È dura nel Sinai», dice con lo sguardo nel vuoto. Cerca parole più forti, ma non riesce. «Ti legano braccia e gambe – spiega incrociando mani e piedi – e ti picchiano ogni giorno, perché vogliono soldi».
Mary, 27 anni, nigeriana, è in Israele da poco più di un anno. Nella serata tiepida di Tel Aviv, siede su un muretto vicino al rifugio dell’organizzazione non governativa African Refugee Development Centre (Ardc), diventata la sua casa, dopo i cinque mesi trascorsi nel centro di detenzione israeliano di Saharonim.
Il rifugio si trova nel quartiere di Shapira che, assieme al vicino Neve Sha’anan, è la casa di migliaia di africani. Mary saluta le donne che passano in strada. Dice: «Ci conosciamo tutti qui. Abbiamo avuto esperienze simili. Ho anche ritrovato persone che erano passate per le mani di Muhammad. Erano sorpresi di vedere me e mio figlio vivi».
Dice che suo figlio ancora pensa che Muhammad possa tornare a picchiarlo in qualsiasi momento: «Non c’è stata notte in cui io e Valentine non abbiamo pianto, o giorno in cui non siamo stati picchiati per quei soldi. Appendevano mio figlio per il collo, perché mi decidessi a chiamare qualcuno, ma non avevo nessuno da poter chiamare».
Quindici mesi di torture, di botte e stupri non bastarono a convincere Muhammad che Mary era sola al mondo. «Fu il padre di lui a liberarmi. Pagò il mio riscatto, dando un cammello al figlio». Continua: «Ho visto gente venire uccisa perché non poteva pagare. Spesso mi domando: ma davvero è successo tutto questo e siamo ancora vivi? Non c’è che ringraziare Dio».
Nella tragedia, Mary ha avuto fortuna. In un servizio mandato in onda in novembre, l’americana Cnn ha documentato il traffico illecito di organi collegato al Sinai. Migranti che non riescono a pagare vengono operati in cliniche mobili e poi abbandonati a morire nel deserto, mentre gli organi espiantati vanno a salvare qualche ricco paziente negli ospedali del Cairo.
Nella clinica gestita da Physicians for Human Rights-Israel (Phr-I), a Jaffa, suor Aziza Kidané, missionaria comboniana, sente spesso storie di violenze simili a quelle subite da Mary. In un anno e mezzo, alla Phr-I sono state raccolte 819 testimonianze di clandestini entrati dal Sinai. Fame, sete, torture e morte caratterizzano la traversata. Tra gennaio e novembre 2011 le stime del ministero degli interni israeliano parlano di 13.683 “infiltrati” (così sono definiti coloro che entrano illegalmente in Israele).


Venduti e rivenduti
Suor Aziza spiega che, fino a un anno e mezzo fa, non si sapeva niente del Sinai. In clinica arrivavano feriti, depressi, donne che chiedevano di abortire, ma non si sapeva cosa avessero passato e, soprattutto, non si capiva la sistematicità delle violenze subite. Sono state le interviste ai nuovi arrivati nella clinica di Phr-I a portare alla luce l’incubo che è diventato il deserto egiziano.
«Abbiamo scoperto il traffico di esseri umani, le torture e la grande sofferenza. È stato un forte shock per tutti. Siamo stati noi i primi a lanciare l’allarme. Poi, anche il Papa ne ha parlato».
In una stanzetta anonima, suor Aziza e una volontaria accolgono una ventenne eritrea che arriva con il fidanzato. Lui le aveva mandato i 3mila dollari necessari per la traversata, nella speranza di potersi riunire in Israele. Il viaggio cominciò con una guida, che la fece uscire illegalmente dall’Eritrea; poi, una volta in Sudan, la violentò. La ragazza è finalmente arrivata in Israele, ma si ritrova in una clinica per immigrati e chiede di abortire. Suor Aziza, con una punta di speranza: «Il fidanzato ha accettato la situazione e le rimane accanto».
Mentre il traffico di esseri umani rimane impunito e produce guadagni da capogiro, la violenza cresce. Ancora suor Aziza: «Chi arriva in clinica è a pezzi psicologicamente e fisicamente. Arrivano tutti con un sogno. Israele è il paese di Gesù e della Bibbia. Una volta qui, però, si ritrovano a dormire nel Levinsky Park». È lì, nel degradato quartiere di Neve Sha’anan, che gli immigrati gravitano. Il parco è vicino alla stazione degli autobus di Tel Aviv, dove gli immigrati vengono spediti dai centri di detenzione con un biglietto di sola andata. Se non portano le ferite di un viaggio andato male, al mattino si radunano sul ciglio della strada, sperando di essere scelti per una giornata di lavoro mal pagato.
Aggiunge la comboniana: «Alcuni sono stati venduti e rivenduti per 35- 40mila dollari. Ora si trovano sulle spalle il peso di dover ripagare il debito alle loro famiglie. Ma non c’è lavoro e non c’è integrazione. Perciò soffrono molto. Si trovano sperduti».
Shahar Shoham, portavoce di Phr-I, è convinta che si possa fare di più a livello internazionale. Assieme ad altre ong, tra le quali le italiane Agenzia Habeisha, di padre Mussie Zerai, ed EveryOne Group, Phr-I ha denunciato la situazione nel Sinai, ha fatto i nomi dei criminali coinvolti e specificato i luoghi in cui i clandestini sono tenuti in ostaggio, torturati o usati come schiavi dai trafficanti. Dice Shoham: «Sappiamo dove sono i campi di tortura e abbiamo passato le informazioni alle autorità competenti. Ci vuole un’azione della comunità internazionale per fermare questo traffico di esseri umani. Bisogna arrestare i colpevoli, smantellare i campi e curare le vittime. E si può fare ora».
Al consolato egiziano di Tel Aviv, un ufficiale la pensa diversamente e punta il dito contro gli stessi irregolari, i quali, pur sapendo di rischiare la vita, dice, «continuano a fidarsi di noti criminali e a pagare loro alte cifre per intraprendere un viaggio illegale». Che il Sinai sia fuori controllo, afferma l’ufficiale, è un’accusa insensata. Gli accordi di pace del 1979 con Israele prevedono che rimanga demilitarizzato. Ma dopo i recenti attacchi al gasdotto di Al-Arish – che raggiunge anche lo stato ebraico – e a Eilat, lo scorso agosto, Israele ha dato il nulla osta a un aumento delle truppe egiziane. I trafficanti beduini, però, sono armati e non si sottomettono al controllo di uno stato che a malapena li considera.
Nel dicembre 2010, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur) fece pressione sul governo egiziano perché liberasse circa 250 migranti e profughi detenuti nel Sinai. L’Egitto assicurò che si stava muovendo per localizzare e liberare gli ostaggi. A oggi, però, nulla è cambiato. Le ong parlano di altre centinaia di africani detenuti in container sepolti nel deserto del Sinai. La situazione, secondo Nic Shlagman, portavoce dell’Ardc, è peggiorata: «Si è innescato un tale giro di affari che si è arrivati al punto in cui persone che non vogliono nemmeno emigrare vengono rapite dai campi profughi, portate nel Sinai e mandate in Israele dietro pagamento del riscatto».
Nemmeno da Israele arrivano proposte per sconfiggere una rete criminale con tentacoli che giungono fino a Tel Aviv. L’ufficio stampa del ministero degli interni fa sapere che le informazioni ricevute dalle ong sono state passate alla polizia. Ma niente si è mosso.
C’è solo da augurarsi che Egitto, Israele e la comunità internazionale non vogliano ignorare questa situazione.


240 km di muro
Grazie al dubbio titolo di “unica democrazia” del Medio Oriente, Israele rimane, comunque, l’unico paese della regione in grado di garantire protezione a chi, purché non arabo, cerchi un futuro sicuro. Come ogni paese di frontiera nelle rotte globali della migrazione, fatica a far fronte alla situazione. All’inizio del 2012, Israele ha approvato una legge che inasprisce le misure contro i migranti irregolari. Per evitare infiltrazioni – come si legge nel testo – la nuova normativa consente la detenzione fino a tre anni, senza processo, di chi attraversa il confine privo permesso, senza distinzione neanche per i minori. Non solo: chiunque aiuti i migranti, anche se operatore umanitario, può essere condannato fino a 15 anni di carcere. «Lo scopo della legge è impedire che i migranti, rifugiati compresi, entrino in Israele, ignorando la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, ratificata anche da Tel Aviv nel 1952», ha dichiarato l’Associazione per i diritti civili (Acri). Il governo, in dicembre, ha varato un piano da 167 milioni di dollari per arginare il flusso dei migranti, che prevede, oltre all’estensione della durata della detenzione, anche la realizzazione di un muro lungo i 240 km che dividono l’Egitto da Israele, multe per i datori di lavoro che assumono in nero gli irregolari e l’elaborazione di una strategia per il rimpatrio dei migranti.
Erano stati proprio gli accordi Libia- Italia del 2009, rinnovati di recente dal governo Monti, a innalzare, a suo tempo, un invisibile muro sulle coste della Libia e a contribuire all’impennata migratoria verso Israele. Tra il 2010 e il 2011, infatti, dal Sinai sono entrati circa 28mila illegali, più del doppio di quanti ne erano entrati tra il 2005 e il 2009. Si parla di cristiani e musulmani, che qui minacciano non solo l’economia, ma anche il carattere ebraico dello stato.
Seduto in un bar eritreo vicino al Levinsky Park, Hailé Mengisteab, trentaquattrenne presidente del Comitato della comunità eritrea in Israele, è convinto che non ci sia muro che possa bloccare la determinazione di chi vuole una vita migliore. Lui stesso, dopo vari tentativi di raggiungere l’Italia dalla Libia, non ha rinunciato, ma ha solo cambiato destinazione.
Mentre il nord del mondo s’illude che, chiudendosi a riccio, possa risolvere un problema globale e mentre Netanyahu si prepara a visitare l’Africa per discutere il rimpatrio di sudanesi ed eritrei (vedi box), gli unici a non perdere di vista il contesto e l’origine della loro situazione sono gli immigrati stessi.
Gli eritrei in Israele sono il 61% dei profughi. Raggruppati in varie organizzazioni, si adoperano sia a sensibilizzare la società israeliana alle difficoltà degli immigrati, sia a ottenere sostegno dalla comunità internazionale per far cadere la dittatura di Isaias Afwerki, che da 18 anni tiene le loro vite sotto completo controllo. Coscrizione obbligatoria che vede giovani trascorrere decenni nell’esercito, mancanza di libertà di stampa, incarcerazioni arbitrarie e persecuzione religiosa sono alcuni dei problemi a cui i profughi eritrei cercano di sfuggire. Afferma Mengisteab: «La classe politica che ci governa ci definisce traditori. I traditori sono loro: hanno perso qualsiasi legittimità». Assieme ad altre organizzazioni della diaspora eritrea nel mondo, il comitato lavora sodo per coronare le ambizioni democratiche degli eritrei.
Il legame con la propria terra rimane forte. Mengisteab sa di dar voce anche alle speranze dei suoi connazionali, quando dice di voler tornare al più presto in un’Eritrea libera: «Mi mancano la mia lingua, le mie montagne e le mie tradizioni». Sono ricordi e un’identità che non si possono ritrovare nella musica di sottofondo e nelle decorazioni colorate di un bar eritreo a Tel Aviv.
Box: Una città in Sud Sudan per gli africani d’Israel
Martedì 20 dicembre il presidente sud-sudanese Salva Kiir si è recato in visita dal presidente israeliano Shimon Peres, incontrando anche il primo ministro Benjamin Netanyahu. Un incontro che conferma gli ottimi rapporti che intercorrono tra il nuovo stato africano e Israele, tra i primi paesi a riconoscere l’indipendenza delle regioni meridionali del Sudan da Khartoum, in seguito al referendum del gennaio 2011, che ha dato il via libera alla secessione. È forse proprio in segno di riconoscenza per il tempestivo riconoscimento, che il presidente Kiir ha dedicato a Israele la prima visita ufficiale da quando è in carica. Del resto, l’Africa Orientale, a causa della sua continua conflittualità, è considerata da Gerusalemme una regione di estrema importanza per il commercio delle proprie armi. Anche se la visione di Israele va ben al di là dei soli aspetti economico-commerciali. Netanyahu, infatti, ha identificato in alcuni paesi della regione possibili alleati per contenere l’espansionismo arabo-islamico in Africa. In particolare Juba, Nairobi e Kampala sono riconosciute come le capitali strategiche con cui avere rapporti privilegiati. Non a caso, la visita di Kiir è stata preceduta di alcune settimane da quella del primo ministro kenyano Raila Odinga, al quale Netanyahu avrebbe promesso un impegno militare maggiore nella lotta contro i ribelli islamisti somali.
Gli incontri dei vertici istituzionali israeliani con Kiir includevano anche il rafforzamento della collaborazione nei campi dello sviluppo tecnologico, dell’industria, dello sviluppo idrico e delle nuove rotte del petrolio sudanese. Il Kenya ha in cantiere la costruzione di uno scalo petrolifero a Lamu, che dovrebbe essere utilizzato anche da Juba.
Nei colloqui si è parlato anche degli 8.000 immigrati che, negli ultimi anni, dal Sud Sudan sono entrati illegalmente in Israele. E che fanno parte di quella massa di immigrati africani – si parla di 40mila persone negli ultimi 6 anni – di cui Gerusalemme vorrebbe disfarsi. Per questo, come ha raccontato il quotidiano economico israeliano Calcalist, uno dei progetti discussi tra la delegazione israeliana e quella sud-sudanese è stata la costruzione in Sud Sudan di una nuova città dove facilitare il reinserimento sociale per decine di migliaia di migranti africani che vivono attualmente in terra israeliana. Secondo il giornale, Gerusalemme è pronta a partecipare alla costruzione di un campo di accoglienza immenso, «grande quasi come una città», dove raccogliere una parte dei 50mila migranti entrati illegalmente nello stato ebraico: 30mila di questi sono eritrei e 15 mila sudanesi. I dirigenti israeliani sarebbero anche disposti a pagare le loro spese di trasporto e una quota per ogni migrante, al quale verrebbero offerti corsi di specializzazione in vari settori (Giba).

sabato 11 febbraio 2012

paura

questo articolo è come se l'avessi scritto io dopo una notte insonne ....
è tanto che non scrivo , ma quando si avvicina febbraio e l'anniversario di Joni ( il 23 saremo al cimitero, lui è morto il 26 febbraio e sono 14 anni) devo fare i conti, tutti gli anni, con i miei incubi . e allora è meglio che stia zitta-
ma Gideon Levy l'ha scritto per me: il governo degli eroi che fa paura agli israeliani.
eccolo

Le minacce di Teheran vanno prese sul serio. Ma attaccare l’Iran è una follia



di Gideon Levy

Tra le persone che leggono queste righe c’è chi non supererà l’inverno. Probabilmente alcuni di loro non moriranno di morte naturale.
Se diamo credito alle minacce di questi giorni, Israele attaccherà gli impianti del programma nucleare iraniano entro l’inizio della primavera. Se le parole si trasformeranno in fatti, centinaia – se non migliaia – di israeliani moriranno sotto i colpi della controffensiva missilistica di Teheran
Qualcuno sostiene che Israele vuole solo fare pressione sull’Iran. Ma le minacce di questo tipo tendono a sfuggire al controllo di chi le ha lanciate, e alla fine possono scatenare una guerra nonostante l’obiettivo iniziale fosse un altro. Teheran potrebbe scegliere di giocare d’anticipo e sferrare un disperato attacco a Israele. C’è anche chi sostiene che l’offensiva israeliana sarà un successo: i jet decollano, sganciano le bombe e distruggono gli impianti nucleari iraniani,
senza lasciare all’Iran l’opportunità di vendicarsi.

Ma le cose potrebbero anche andare diversamente. In ogni caso dobbiamo ammetterlo: siamo in pericolo, Israele (forse) si prepara ad attaccare l’Iran. E allora
sì che dovremmo avere paura.

Ma l’impressione è che la maggioranza degli israeliani non ha paura. Nessuno sta abbandonando il paese in preda al panico, nessuno sta accumulando scorte. La decisione viene lasciata a un piccolo gruppo di persone convinte che l’opinione pubblica, come sempre, si idi ciecamente di loro. Il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Ehud Barak decideranno cosa bisogna fare, e noi israeliani li sosterremo silenziosamente. Non facciamo affidamento su di loro se si tratta di domare un incendio come quello che ha distrutto la foresta di Carmel o amministrare i loro uffici. Ma un attacco all’Iran? La vita e la morte (soprattutto la morte) su larga scala? In quel caso, ci ridiamo. È sempre andata così nelle guerre di Israele. Prima che venissero combattute, il popolo sosteneva
i suoi leader. Dopo invece, quando il sangue era stato versato in abbondanza e le conseguenze erano davanti agli occhi di tutti, ce la siamo presa con loro.

Scelte discutibili.

Tutte le guerre combattute da Israele dal 1973 sono cominciate a causa di scelte discutibili. Nessuna guerra era inevitabile e nessuna guerra ha portato benefici che non si potevano ottenere con altri mezzi. Sono state tutte guerre disastrose, anche se a soffrirne le conseguenze peggiori sono stati i nostri avversari. La più folle di tutte, la guerra in Libano nel 2006, è stata anche la più catastrofica. Vale la pena di ricordarlo quando parliamo di un attacco all’Iran, che evidentemente sarebbe ancora più folle.

Sia nella guerra in Libano sia in quella nella Striscia di Gaza, Israele ha perso più di quanto abbia guadagnato. Ma se davvero scoppierà, la guerra con l’Iran ha
le potenzialità per diventare la più devastante di tutte. Possiamo anche credere alle rassicurazioni di Barak, ma le previsioni parlano comunque di centinaia di vittime tra i civili.

Il programma nucleare iraniano è pericoloso, ma lo sono anche quelli del Pakistan e della Corea del Nord. Eppure il mondo ha imparato a conviverci. Un attacco israeliano potrebbe rendere l’Iran ancora più pericoloso. Sulle conseguenze dello scontro è stato detto di tutto. Nella migliore delle ipotesi il risultato sarebbe un rallentamento nel programma di Teheran per lo sviluppo di armi nucleari, ma potrebbe anche succedere il contrario, e i piani del governo iraniano potrebbero subire un’accelerazione. Inoltre le relazioni tra Israele e Stati Uniti peggiorerebbero inevitabilmente e le città israeliane potrebbero essere investite da una
pioggia di missili. La verità è che Israele deve fare di tutto per impedire a Teheran di dotarsi di un arsenale nucleare, e deve evitare di scatenare un’altra guerra inutile.

La decisione, però, è nelle mani sbagliate. Non possiamo più dipendere dagli Stati Uniti per scongiurare la minaccia di una guerra, e non possiamo più dipendere dal governo israeliano per la sicurezza del nostro paese. Un governo che ignora l’opportunità di raggiungere un accordo con i palestinesi è un
governo pericoloso.

È arrivato il tempo della paura. Non ci resta che ammetterlo e farlo capire anche agli altri. È passato molto tempo dall’ultima volta in cui Israele è stato governato da leader codardi, il genere di persone che per timore agisce in modo saggio e con prudenza. Per troppo tempo siamo stati governati da eroi, quelli che non ci pensano un attimo prima di trascinare il paese in un attacco militare pericoloso e insensato. E allora forse è arrivato il momento di fargli capire come stanno le cose: abbiamo p-a-u-r-a.